Ma l’amore c’entra?
proiezione docu-film
di Elisabetta Lodoli a Lecce
domenica 27 ottobre
dalle ore 18:00 alle 20:00
Biblioteca Convitto Palmieri
Lecce
Domenica 27 ottobre (ore 18 – ingresso libero) nella sala al primo piano del Convitto Palmieri di Lecce, il festival Conversazioni sul Futuro ospita la proiezione di Ma l'amore c'entra? di Elisabetta Lodoli. La regista, subito dopo, dialogherà con Ilaria Florio (Casa delle donne di Lecce).
La violenza sulle donne racconta da tre uomini che hanno avuto comportamenti violenti contro le proprie mogli o compagne ma che hanno intrapreso un percorso di cambiamento chiedendo aiuto al centro Liberiamoci dalla Violenza dell’Ausl di Modena. Una riflessione sull’educazione sentimentale, sugli stereotipi e le gabbie culturali, sulla differenza uomo-donna. Il percorso dei protagonisti è costruito sulle parole raccolte nelle interviste condotte nell’arco di due anni.
Ingresso libero
Info e programma conversazionisulfuturo.it
La violenza sulle donne racconta da tre uomini che hanno avuto comportamenti violenti contro le proprie mogli o compagne ma che hanno intrapreso un percorso di cambiamento chiedendo aiuto al centro Liberiamoci dalla Violenza dell’Ausl di Modena. Una riflessione sull’educazione sentimentale, sugli stereotipi e le gabbie culturali, sulla differenza uomo-donna. Il percorso dei protagonisti è costruito sulle parole raccolte nelle interviste condotte nell’arco di due anni.
La proiezione rientra all’interno della mostra WHAT WERE YOU WEARING – COM’ERI VESTITA? a cura di Libere Sinergie e, per la Puglia, realizzata con l’APS Sudestdonne, promossa da Conversazioni sul futuro, in collaborazione con la Casa delle donne di Lecce.
La mostra che racconta storie di abusi poste accanto agli abiti in esposizione che intendono rappresentare, in maniera fedele, l’abbigliamento che la vittima indossava al momento della violenza subita. Si tratta di un progetto che nasce nel 2013 da parte di Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas, e di Mary A. Wyandt-Hiebert responsabile di tutte le iniziative di programmazione presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas e diffuso in Italia grazie al lavoro dell’Associazione Libere Sinergie che ne propone un adattamento al contesto socio culturale del nostro Paese. L’idea alla base del lavoro è quella di sensibilizzare il pubblico sul tema della violenza sulle donne e smantellare il pregiudizio che la vittima avrebbe potuto evitare lo stupro se solo avesse indossato abiti meno provocanti. Da qui il titolo emblematico ‘Com’eri vestita’. I visitatori possono identificarsi nelle storie narrate e al tempo stesso vedere quanto siano comuni gli abiti che le vittime indossavano. “Bisogna essere in grado di suscitare delle reazioni, all’interno dello spazio della mostra, simili a quelle riportate”, afferma Brockman, per indurre le visitatrici a pensare: “ho questi indumenti appesi nel mio armadio!” oppure “ero vestita così questa settimana”. In tale contesto si rendono evidenti gli stereotipi che inducono a pensare che eliminando alcuni indumenti dagli armadi o evitando di indossarli le donne possano automaticamente eliminare la violenza sessuale. “Non è l’abito che si ha indosso che causa una violenza sessuale – aggiunge Brockman – ma è una persona a causare il danno. Essere in grado di donare serenità alle vittime e suscitare maggiore consapevolezza nel pubblico e nella comunità è la vera motivazione del progetto”. Le storie esposte sono state tradotte in quattro lingue: italiano, inglese, spagnolo e francese.
La mostra che racconta storie di abusi poste accanto agli abiti in esposizione che intendono rappresentare, in maniera fedele, l’abbigliamento che la vittima indossava al momento della violenza subita. Si tratta di un progetto che nasce nel 2013 da parte di Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas, e di Mary A. Wyandt-Hiebert responsabile di tutte le iniziative di programmazione presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas e diffuso in Italia grazie al lavoro dell’Associazione Libere Sinergie che ne propone un adattamento al contesto socio culturale del nostro Paese. L’idea alla base del lavoro è quella di sensibilizzare il pubblico sul tema della violenza sulle donne e smantellare il pregiudizio che la vittima avrebbe potuto evitare lo stupro se solo avesse indossato abiti meno provocanti. Da qui il titolo emblematico ‘Com’eri vestita’. I visitatori possono identificarsi nelle storie narrate e al tempo stesso vedere quanto siano comuni gli abiti che le vittime indossavano. “Bisogna essere in grado di suscitare delle reazioni, all’interno dello spazio della mostra, simili a quelle riportate”, afferma Brockman, per indurre le visitatrici a pensare: “ho questi indumenti appesi nel mio armadio!” oppure “ero vestita così questa settimana”. In tale contesto si rendono evidenti gli stereotipi che inducono a pensare che eliminando alcuni indumenti dagli armadi o evitando di indossarli le donne possano automaticamente eliminare la violenza sessuale. “Non è l’abito che si ha indosso che causa una violenza sessuale – aggiunge Brockman – ma è una persona a causare il danno. Essere in grado di donare serenità alle vittime e suscitare maggiore consapevolezza nel pubblico e nella comunità è la vera motivazione del progetto”. Le storie esposte sono state tradotte in quattro lingue: italiano, inglese, spagnolo e francese.
Ingresso libero
Info e programma conversazionisulfuturo.it
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