Comune-info
per lo più pubblica articoli brevi, preferendo segnalare eventuali
libri e link con i quali approfondire alcuni temi. Quella che segue è
un’eccezione. Se non avete qualche minuto di tranquillità in più del
solito rinviate questa interessante lettura, ne vale davvero la pena.
Tra gli interventi più apprezzati e discussi alla Conferenza internazionale sulla decrescita
di Venezia, quello di Veronika Bennholdt-Thomsen, etnologa e sociologa
femminista, ha intrecciato i temi della decrescita con una prospettiva
di genere. Veronika Bennholdt-Thomsen dirige l’Institute of the Theory
and praxis of subsistence a Bielefeld, in Germania ed è docente alla
università di Vienna. Ha condotto molte ricerche su questioni di genere,
sull’economie regionali e di antropologia sociale in Messico e in
Germania. È autrice di numerosi libri sulle alternative di sussistenza
in Europa e nel Sud del mondo. Questo scritto è la traduzione
dell’intervento tenuto al congresso Prospettive della politica matriarcale,
St. Gallen, in Svizzera, nel maggio 2011, da poco pubblicato su il sito
dell’università Ca’Foscari di Venezia (unive.it). In modo profondo e
brillante l’autrice analizza i nessi tra critica allo sviluppo (per
capirci, quella di Ivan Illich, Jean Robert, Majid Rahnema, Vandana Shiva, André Gorz e Serge Latouche), questioni di genere (Geneviève Vaughan e altre studiose, attente ai valori delle società matriarcali) e cambiamento dal basso (John Holloway soprattutto ma anche Raúl Zibechi, Rebecca Solnit, Chris Carlsson, John Scott, Arundhati Roy, Miguel Benasayag, John Berger, Gustavo Esteva, Immanuel Wallerstein, Howard Zinn, Cornelius Castoriadis).
Introduzione. La politica della prospettiva di sussistenza: di cosa si tratta?
Viviamo
in un periodo di trasformazioni radicali. Coloro che vedono in esse una
crisi della civiltà sono sempre più numerosi. Con ciò si intende che
tutte le varie «crisi»: la crisi climatica e quella ambientale, ovvero
le cosiddette catastrofi naturali, la crisi finanziaria e quella
economica, la crisi alimentare – che in realtà è una «crisi» dei prezzi
dei prodotti alimentari – e infine la catastrofe atomica –
eufemisticamente definita come crisi dell’energia atomica – confluiscono
in un’unica crisi, vale a dire la crisi dei valori e della cultura,
ormai diffusa in tutto il mondo, basata sulla fede nella crescita
economica che va perseguita mettendo a repentaglio i singoli, le nazioni
e infine l’intera umanità. Il consumo di massa è divenuto il pilastro
della crescita del profitto, l’aspirazione alla crescita del profitto a
sua volta alimenta il consumismo e insieme sfociano nella distruzione
dell’umanità e nel saccheggio della natura. Ciò che legittima il nesso
tra la crescita del profitto e la propensione ai consumi è il «vantaggio
individuale», o come sin dai tempi di Adam Smith è stata
eufemisticamente definita l’avidità, «l’interesse». La sua ben nota tesi
centrale è assurta a principio fondamentale dell’economia. Perseguendo
il proprio vantaggio ciascuno può contribuire più efficacemente al
benessere della nazione che non dedicandosi espressamente al benessere
collettivo. La politica dello sviluppo ha diffuso questa fede in tutto
il mondo, come fosse una religione. Nella seconda metà del ventesimo
secolo l’eresia era il «sottosviluppo».
Nel
ventunesimo questa ortodossia si è definitivamente imposta e si è
completata la Conquista. La globalizzazione dei mercati in un unico
mercato mondiale ha trionfato. In nome del libero mercato mondiale
milioni di contadine e di contadini vengono derubati della propria
terra, vale a dire della base di sostentamento, altri sono privati delle
proprie sementi e migliaia sono spinti al suicidio a causa
dell’indebitamento per le sementi chimiche.
I
profughi vengono respinti verso altri paesi, economicamente più
fortunati. A migliaia muoiono durante la fuga. Le grandi imprese nel
campo dell’energia non temono di impiegare la tecnologia atomica che
minaccia ogni forma di vita, mentre i governi si rendono loro complici
per raggiungere la presunta crescita economica. L’economia stessa è
diventata guerra, il denaro arma. Il confine con la violenza bellica
sanguinaria è fluido. Noi, che apparteniamo alla società globalizzata
della massimizzazione, ci troviamo al bivio. Accettiamo che questa
civiltà distrugga il mondo oppure no? Si tratta di una questione di vita
o di morte, di qualcosa di concreto, fisico e nel contempo di attinente
ai valori, alla fede e all’etica sottesi a questa dinamica. È
necessario riconoscere che la visione del mondo della «società della
crescita» segue l’ordine simbolico della morte. Non abbiamo bisogno
soltanto di un nuovo ordinamento economico bensì, fondamentalmente, di
un nuovo contratto sociale basato su nuovi valori.
È essenziale un nuovo contratto sociale
Abbiamo
bisogno di un nuovo contratto sociale che si fondi sulla valorizzazione
delle relazioni tra i viventi e non sulla distruzione dell’umanità e
sul saccheggio della natura finalizzato alla massimizzazione del
profitto e alla crescita dei consumi. Abbiamo bisogno di un contratto
sociale fondato su un sistema di valori che riconosca la fertilità
naturale e vivente, in base alla quale i bambini hanno origine dalle
donne, e non dalla provetta di laboratorio, e il cibo dalla terra, e non
dalla macchina. Noi abbiamo bisogno di un contratto sociale che superi
il produttivismo, teso all’incremento delle merci e del profitto, e sia
sostituito dalla cooperazione con
le forze naturali viventi. Abbiamo bisogno di un contratto sociale che
si ispiri ai valori della cura materna, affinché le generazioni future
crescano rettamente e i malati e gli anziani possano vivere e morire con
dignità.
Tutti
questi aspetti di un nuovo orientamento rappresentano anche i valori
centrali nelle società matriarcali. Nella nostra società patriarcale, al
contrario, incontrano un’accanita opposizione, e quando vengono
identificati come valori materni e matriarcali, sono spesso oggetto di
contestazione anche da parte delle donne. Noi femministe conosciamo la
critica difensiva che ci viene rivolta con lo scopo di sminuire, che è
di biologismo e di essenzialismo. Ma ogni essere umano, uomo o donna,
può essere premuroso in modo materno.
Ciò
non ha niente a che fare con la biologia. Al contrario, il sentimento
materno in tutte le culture è il simbolo del sostegno alla vita, e
l’ordine simbolico della madre e della maternità rappresenta l’ordine
naturale del divenire e del trascorrere. Lo si ritrova in tutte le
culture, a meno che non siano essenzialmente guerriere, come la nostra o
quella estremamente oppressiva nei confronti delle donne dei Baruya in
Nuova Guinea, con la sua economia primitiva di caccia e raccolta. Fra i
Baruya la forza socialmente riconosciuta come decisiva è quella del
portare la morte. Ma perfino qui, i portatori di morte si rappresentano
come «creatori», come coloro che per mezzo del seme maschile creano la
fertilità del campo e che nei riti di iniziazione omosessuali destano i
propri figli alla vita.
Anche
noi conosciamo la messa in scena della fertilità da parte
dell’industria chimica con il suo monopolio sulle sementi, i suoi
organismi geneticamente modificati (Ogm), dotati di geni-Terminator
incorporati. Esattamente questo è l’autentico biologismo, il logos crea presumibilmente la vita, dopo averla precedentemente strappata alla physis
e averla quasi uccisa. Viene separata e divisa, soffocata e poi creata
artificialmente («man made»). Naturalmente, si tratta di una presunta
nuova creazione. Proprio questo è l’essenzialismo, essenzialismo
patriarcale, e precisamente quello che attribuisce al distruttore
l’autentica ed essenziale forza creatrice. Claudia von Werlhof la
definisce una pratica alchemica. Una civiltà della post-crescita ha
bisogno di un modo di pensare decisamente nuovo. Nello specifico,
occorre superare il concetto di Natura proprio delle scienze naturali, e
tendere a una comprensione della natura come riconoscimento della
corporeità, della mater-ia, della concreta e sensoriale materialità,
riconoscimento di quello che ci è stato dato e del modo in cui la vita stessa ci è stata data, come dono. La teoria della gift economy di Geneviève Vaughan si basa su questo riconoscimento (G. Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi).
La prospettiva della sussistenza e la politica della sussistenza
Da anni, decenni, noi che lavoriamo alla teoria
della sussistenza – e nel frattempo siamo diventate numerose, tutte
femministe orientate in senso matriarcale – abbiamo criticato duramente
la perversione, il rovesciamento di vita e morte da parte dell’economia
della crescita e della sua politica di sviluppo globalizzata. Ma non c’è
nulla di più complicato del parlare contro dogmi consolidati. Lo so per
amara esperienza. Ma proprio di questo si tratta: analizzare
criticamene i dogmi indiscussi e cercare i modi in cui, ai nostri
giorni, nel ventesimo e ventunesimo secolo, possano funzionare
diversamente, in modo assolutamente pratico e pragmatico.
«Sussistenza», il concetto e il suo significato
Sussistenza
è ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, ciò con cui la vita
«prosegue», come asserì Gertrud Mies, la madre di Maria Mies. Lei,
contadina di lingua tedesca dell’Eifel, probabilmente non conosceva
ancora l’espressione «sussistenza», prima che sua figlia si dedicasse al
tema, a differenza delle contadine di lingua inglese in India presso le
quali Maria ha compiuto le sue ricerche, o dei contadini di lingua
spagnola in Messico, dove ho svolto le mie, o di quelli francofoni in
Africa Occidentale o in Svizzera. In latino «subsistere» ha il
significato di «ciò da cui deriva la propria esistenza, la propria
essenza». Con ciò si fa riferimento al processo che esiste e continua
grazie a una certa forza vitale. Gli esseri umani vengono ricompresi
come parte della totalità di questo processo. La nostra definizione
sottolinea la partecipazione attiva da parte degli umani. «Produzione di
sussistenza» – o produzione vitale – comprende tutto il lavoro svolto
per la produzione e la conservazione della vita immediata, che ha questo
preciso scopo. In questo senso il concetto di produzione di sussistenza
si contrappone a quello di produzione di merce e valore aggiunto. Nella
produzione di sussistenza l’obiettivo è la «Vita». Nella produzione di
merci l’obiettivo è il denaro, che «produce» sempre più denaro oppure
l’accumulazione del capitale. La vita si presenta in un certo senso
soltanto come effetto «collaterale». Orientamento alla sussistenza, è lo
sguardo al necessario, non soltanto per noi stessi, ma anche per gli
altri, l’esatto contrario dell’interesse personale. «Vivere e lasciar
vivere», dice la gente nella Warburger Börde, nella Westfalia orientale.
E questo significa anche vivere in modo tale che non lo si faccia a
spese della sussistenza degli altri. La mia sussistenza comprende sempre
anche la sussistenza degli altri. Questa morale della sussistenza, che
E. P. Thompson ha individuato anche nel comportamento della classe
operaia inglese del tardo diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo
secolo, e che ha definito moral economy,
è più importante che mai in un mondo globalizzato: vivere in modo tale
che io con il mio consumo non sottragga niente ad alcuno, in alcun
luogo. Think globally, act locally!
Orientamento
alla sussistenza significa liberazione dalla fissazione sul «di più e
sempre di più», significa riconoscere ciò che è superfluo, quando
interviene la sazietà e quando comincia l’avidità, che divora soltanto
tempo e voglia di vivere. Sussistenza significa non fidarsi più del
denaro, ma delle forze viventi, anche delle proprie. Sussistenza
significa mettere alla prova le proprie capacità, significa fare da sé
e, d’altro canto, significa consolidare insieme agli altri le nostre
basi di esistenza. Non si può mangiare il denaro, dal denaro non si
costruiscono case, il denaro non sostituisce alcuna assistenza e alcuna
comunità. Sussistenza non significa autarchia, come è definita nella
nostra società frantumata e individualizzata, per sminuirne il
significato. Perché nella società della concorrenza inserita
nell’economia della crescita, in cui predomina la cultura dell’homo homini lupus
(Thomas Hobbes 1651), risulta difficile connettere la sovranità
indipendente della persona e la cooperazione comunitaria. Nel nuovo
concetto della sovranità alimentare, invece, esse lo sono. Ciò non ha
niente a che vedere con l’isolazionismo autarchico.
I principi di una politica della prospettiva di sussistenza
-
Politica di sussistenza è una politica del quotidiano, praticata dal «basso», dall’individuo attivo e consapevole delle proprie responsabilità e non dall’«alto», da parte di un’autorità superiore.
-
Politica di sussistenza è una politica del necessario, dell’immanenza anziché della trascendenza.
-
La politica per la sussistenza si orienta al concreto, al materiale, al corporeo, al sensoriale e si indirizza contro il denaro e l’anonimia della merce.
-
Orientamento alla sussistenza è una politica per la ricostruzione della comunità.
Sul punto n.1: Politica di sussistenza come politica dell’individuo fondata sulla quotidianità e sull’iniziativa
L’episodio
che segue può illustrare ciò che qui si intende. Molti anni fa ho
partecipato al ricevimento di Capodanno del governo regionale. Si
parlava delle più recenti statistiche agrarie. Era calato ulteriormente
il numero delle imprese i cui titolari svolgevano un’attività
secondaria. Sospiro di sollievo da parte dell’uomo che casualmente si
trovava accanto a me, il presidente della Camera di commercio e
dell’industria: «Questo è un bene – affermò – Nelle trattative
contrattuali i lavoratori che possiedono il piccolo podere che
coltivano, sono particolarmente ostinati». Ah sì, per quale motivo?
pensai. Molto semplicemente perché essi non dipendono interamente dal
salario per la loro sussistenza e perciò non temono così tanto la
cosiddetta disoccupazione. Di norma, alle nostre latitudini, è la donna
che coltiva i campi come attività secondaria. L’occupazione secondaria
costituisce la principale occupazione femminile. La garanzia della
sussistenza dipende da lei. Dal punto di vista della crescita economica
questa modalità di divisione del lavoro, in base al genere, è vista come
uno svantaggio per le donne, ovvero a livello europeo i campi, i
piccoli appezzamenti contadini, non le grandi aziende agricole, di fatto
o di diritto sono in mano alle donne. A quasi nessuno viene in mente
che le donne decidano di essere contadine autonome. A mio parere, al
contrario, questo è un esempio di come al giorno d’oggi, in condizioni
capitalistiche assolutamente patriarcali, si possa esprimere una
politica matriarcale.
Con
il mio aneddoto del ricevimento di inizio anno non voglio dire che
coloro che non dispongono di un pezzo di terra abbiano necessariamente
un minore spirito di resistenza di fronte alle costrizioni dell’economia
della crescita. La realtà concreta rivela piuttosto che soltanto
l’orientamento alla sussistenza, cioè l’orientamento a ciò che
quotidianamente è necessario per vivere – cibo, abiti, un tetto sopra la
testa e i vicini – crea immaginari politici diversi. Altri obiettivi
appaiono all’orizzonte oltre allo stipendio e alla spesa al
supermercato. Il movimento per l’urban gardening lo dimostra:
«è la tua città, coltivala», recita uno dei loro slogan. La comprensione
effettiva della politica di resistenza è distante mille miglia dalla
collaborazione di un insieme di persone, che soltanto in base al loro
numero ha il potere di strappare qualcosa al potere sovrastante. Al
contrario, chi ha colto a fondo l’essenza del messaggio, prende le
vanghe e trasforma i terreni a maggese in orti fioriti, con verdure che
può consumare direttamente. Christa Müller ha parlato di questo
movimento in modo più accurato e meglio informato. L’esempio mi serve
anche per illustrare una questione più generale.
La forza politica del ventunesimo secolo risiede nell’individuo
Cambiare il mondo senza prendere il potere
è il titolo di un’opera molto profonda di John Holloway (nota di
Comune-info: l’edizione italiana è stata curata da Marco Calabria e
pubblicata da Carta/Intra Moenia nel 2004; Crack Capitalism, Derive Approdi 2012, è la «figlia», come scrive Holloway, di Cambiare il mondo senza prendere il potere).
Egli intende con ciò una trasformazione dei rapporti sociali attraverso
la mutata organizzazione delle condizioni di vita laddove l’uomo
moderno è anche in grado di compiere scelte autonome nella vita di tutti
i giorni. L’isolamento degli individui nel nostro tempo è sì un
problema, ma allo stesso tempo anche un’opportunità. Ad esso corrisponde
la struttura di potere sociale specifica della nostra epoca,
storicamente nuova. A confrontarsi con l’apparato di potere non sono più
le caste, i ceti, le classi o le razze, o meglio lo sono sempre meno,
mentre lo è l’individuo che per poter sopravvivere, è sempre più
direttamente sottomesso al dominio dei grandi gruppi industriali e delle
banche, vale a dire al loro denaro, alle loro merci e al loro mercato,
il cosiddetto libero mercato. La coercizione del sistema del denaro e
delle merci ha tendenze totalitarie. Lo stato, in quanto istanza
mediatrice, svolge un ruolo sempre meno importante, sia fra lavoro
salariato e capitale, sia per i servizi pubblici come compito della
comunità, quali il servizio idrico, le strade, la corrente elettrica, i
servizi postali, le comunicazioni, e così via. Infatti, invece del ruolo
di mediatore, lo Stato ad est, ovest, nord e sud, assume quello di
garante del funzionamento del sistema delle merci, votato alla
massimizzazione economica, servendosi delle tradizionali istituzioni
della violenza statale. Il modo di sentire che guida la politica
quotidiana dell’individuo che agisce in modo sovrano non è quella della
giustizia sociale, misurata e concessa da un’autorità superiore, e
quindi dall’alto, ma quella dell’uguaglianza orizzontale. La nostra
condizione umana (Qua conditio humana) ci rende tutti uguali, pari, perché tutti nati da una madre.
Sul punto n.2: la politica di sussistenza è la politica del necessario, dell’immanenza anziché della trascendenza
Riconciliare
concettualmente Politica e Sussistenza rappresenta una sfida ai tempi
della mania di grandezza globalizzata della massimizzazione economica.
«Queste però sono cose insignificanti», mi capita spesso di sentire. E
anche: «I vostri esempi trattano soltanto di cibo, come la mettiamo con
le altre necessità, il computer, l’automobile etc.?». Io resto sempre
stupefatta da quel «soltanto» riferito al cibo. Soltanto il cibo?
Mangiamo tre volte al giorno. Quelli che non hanno abbastanza di cui
nutrirsi e che languono e muoiono, sono oltre un miliardo, più numerosi
degli abitanti dell’Europa e degli Stati uniti messi assieme. «Cereali
come arma» era uno strumento della politica statunitense, soprattutto
nei confronti dell’Africa. I grandi capitali finanziari, le banche, come
la Deutsche Bank o la svizzera Ubs, pubblicizzano investimenti nei
cosiddetti titoli agricoli, che promettono rendimenti particolarmente
sicuri, semplicemente perché la popolazione mondiale cresce e le persone
devono mangiare. Mentre i nuovi signori del mondo, i grandi gruppi
industriali e gli istituti finanziari, da tempo hanno scoperto che le
necessità di sussistenza sono il territorio di caccia più sicuro per i
loro utili, e anzi da tempo le sfruttano – si vedano ad esempio anche i
vari supermercati come Aldi, Walmart etc., le «vittime» credono ancora
di dover litigare per la distribuzione socialmente equa del denaro. Come
se questo fosse più importante del cibo. Esse non riconoscono i tratti
totalitari del sistema del denaro e delle merci.
Qual
è l’origine di questa errata valutazione del significato
dell’alimentazione, così largamente diffusa e così profondamente
penetrata nella scala dei valori? La scarsa considerazione della
produzione di sussistenza è uno dei pilastri della cultura patriarcale
occidentale. Ad Atene, culla della democrazia e del pensiero filosofico
occidentale, erano le donne e gli schiavi ad occuparsi del cibo e delle
altre attività di sussistenza, mentre i grandi uomini e i cittadini
liberi tenevano discorsi politici presso l’Areopago. Chi doveva curare
la sussistenza era considerata una persona non libera. Questa idea
condiziona ancora la nostra cultura. Si ritiene che il regno della
libertà si trovi al di là del regno della necessità. E coloro i quali si
occupano della sussistenza vengono per questo stesso motivo scarsamente
considerati: madri, donne in generale, contadini e contadine,
domestiche e donne delle pulizie, e così via. La demarcazione rispetto
alla sussistenza è l’essenza fondamentale della gerarchia, del potere e
del dominio, non solo in occidente. Di più, essa è il nucleo centrale
del patriarcato, di tutti i patriarcati. È la negazione del fatto che i
bambini nascono dalle donne, che la fertilità ha origine dalla madre
Terra. Come sappiamo, la negazione è legata alla violenza. Con la
violenza la negazione viene messa in atto.
Essere
un guerriero presuppone che ci siano altri che si curano di ciò che
garantisce la sopravvivenza. Queste persone vengono depredate, spremute a
livello fiscale, oppure vengono a ciò costrette, per effetto della
pressione violenta, come le donne presso i Baruya, o come la casalinga
moderna o la donna lavoratrice double shift (che unisce lavoro salariato e lavoro di cura e domestico), oppure la madre lavoratrice triple shift,
che per quello stesso lavoro riceve un salario inferiore rispetto agli
uomini. Il distacco dalla sussistenza è il terreno sul quale si sviluppa
la cultura di massa capitalistica. Non doversi più sporcare le mani era
uno degli stimoli per il lavoro industriale. Poter lavorare per il
denaro – dunque vendere la forza lavoro come merce – invece di lavorare
direttamente nei campi, in giardino, in cucina, in casa e per i bambini,
appare come il passaggio decisivo per uscire dal disprezzo sociale,
anche nella concezione del mondo femminile.
Che
aspetto avrebbe oggi il nostro mondo, se il movimento femminista avesse
lottato per obiettivi diversi? Ad esempio, per il diritto della donna
al lavoro di sussistenza e alla maternità, in difesa degli ambiti di
sussistenza, contro la loro commercializzazione e per il rafforzamento
di strutture sociali autonome della produzione di sussistenza, invece di
soffermarsi sul lavoro salariato? La promessa di raggiungere,
attraverso la sottomissione ai rapporti di lavoro e di vita
dell’economia della crescita, il regno della libertà al di là delle
necessità di sussistenza, è una delle più importanti forze motrici
dell’ordine sociale dominante.
Essere
liberato dalla necessità è il classico principio patriarcale della
trascendenza. L’economia della crescita è tipicamente trascendente,
nella misura in cui la «liberazione» viene promessa per il futuro. Se
oggi in Germania, in Svizzera o in qualsivoglia altro luogo, si investe,
le banche vengono «salvate», gli stipendi ridotti e il sistema di
sicurezza sociale smantellato, domani tutto questo forse porterà dei
frutti e dopodomani staremo tutti bene. Se gli agricoltori oggi
investono in una stalla più grande per l’ingrasso dei maiali, solamente
in seguito – e presumibilmente soltanto in seguito, afferma la Camera
dell’agricoltura – potranno rimanere sul mercato. Allora saranno una
delle cosiddette imprese del futuro. Per far ciò devono indebitarsi e
ipotecare la loro terra. La sazietà, la soddisfazione e la stima non
risiedono in ciò che è presente e nei processi vitali ad esso legati, ma
soltanto al di là di esso. Questo è patriarcale.
La
politica di sussistenza segue invece l’immanente. È matriarcale. Il
senso e lo spirito risiedono nelle cose, in questo mondo, su questa
terra. Si pensi soltanto alla mitologia del paesaggio. Proprio in questo
senso una politica di sussistenza dovrebbe iniziare dal cibo. Come ci
procuriamo il cibo e dove? Come appaiono le condizioni di coloro che
coltivano le piante e allevano gli animali? Come ci si rapporta alle
piante e agli animali? Come si fa con l’acqua, che ci tiene tutti in
vita? Le risposte a queste domande conducono alla politica dell’attività
economica locale, regionale. L’obiettivo è che il paesaggio ambientale
al quale appartengo, perché qui sta il territorio che mi sostiene,
costituisca anche la base del mio sostentamento per le necessità vitali.
Certo, non tutto ciò di cui ho bisogno potrà provenire dalla regione in
cui vivo, ma il solo agire in base a questo principio fondamentale ci
conduce avanti. Ciò vale soprattutto in riferimento al cibo. È il punto
di partenza, il centro dal quale i cicli del necessario saranno mossi
sempre più su scala regionale e meno su scala globale.
Sul punto n.3: la politica di sussistenza si pone contro l’astrazione del denaro e contro l’anonimato della merce
Che
cosa significa immanenza in riferimento al nostro rapporto col denaro?
Che rapporto ha con il denaro l’umanità del nostro tempo, incapace di
pensare e avere sentimenti nel segno dell’immanenza? Per noi esseri
umani del presente è difficile riconoscere o meglio comprendere il lato
concreto, materiale, vitale delle cose prima ancora di interrogarci
sull’astrazione di valore: Quanto costa? Oppure, che cosa comporta?
Da
questa prospettiva, le condizioni naturali si trasformano in risorse e
la relazione con la natura ha soltanto la forma del tempo libero o del
fitness. Vediamo dappertutto il valore-denaro e non il reale valore
delle cose, che sta, ad esempio, nel buon sapore dei pomodori maturi,
nella freschezza dell’acqua, oppure nel grado di spensieratezza e di
felicità di bambini e anziani, se assistiti assecondando il loro ritmo
vitale, con pazienza, calma e tranquillità. Nell’epoca del denaro come
misura delle cose, tuttavia, al centro non ci sono l’assistenza e il
dare, bensì il prendere e il voler avere.
Vige la regola del do ut des,
io do affinché tu mi dia. È il principio patriarcale
dell’appropriazione bellica, e cioè dello scambio equivalente in
pellicce di montone. Quanto è diversa, invece, la cura materna per la
sussistenza dei figli. Essa comporta un dare senza condizione di una
controprestazione, semplicemente perché il bambino ne ha bisogno. Ed è
un bisogno necessario alla vita, perché altrimenti non ci sarebbe alcuna
società. Anche nella nostra epoca l’atto materno del dare è il punto di
partenza per un’altra economia e per un’altra società, non
utilitaristiche. Il denaro rende egocentrici. È l’oggettivazione, o
meglio il feticcio dell’egocentrismo. Il denaro non unisce, ma divide
gli esseri umani l’uno dall’altro, ostacola le relazioni sociali. Denaro
o vita.
La
politica di sussistenza si pone contro questa perdita di relazioni ad
ogni livello, contrastando l’astrazione del denaro e l’anonimato delle
merci. La parola d’ordine è demercificazione,
e cioè in modo molto pragmatico, dove e quando capita. Così mineremo
alle fondamenta, lentamente ma in modo certo, il potere totalitario del
sistema del denaro e delle merci. La politica di sussistenza è la
politica del quotidiano, «dal basso», attuata dall’individuo conscio
delle proprie responsabilità, che indica il percorso che conduce oltre
l’economia della crescita, verso la gift economy.
Sul punto n.4: l’orientamento alla sussistenza è una politica per la ricostruzione della società
Una
politica orientata alla sussistenza dell’individuo consapevole delle
proprie responsabilità è il contrario di una politica
dell’individualizzazione. Poiché l’orientamento al necessario, al valore
effettivo materiale e concreto conduce all’attenzione nei confronti
dell’umano e della natura. Così il senso di responsabilità per ciò che è
comunitario può di nuovo rafforzarsi, e cioè molto concretamente a
favore delle terre comuni, note anche come commons, i cosiddetti beni comuni. Con il termine global commons
vengono oggi definite le condizioni naturali che sono comuni all’intera
umanità, come l’atmosfera, il clima, i mari, l’abbondanza di pesce, la
biodiversità, tutto ciò di cui ci si preoccupa in tutto il mondo a causa
della distruzione determinata dalla globalizzazione. Proprio in questo
contesto la politica di sussistenza dal basso, dell’individuo, del
quotidiano e del locale assume un’importanza fondamentale. Perché
soltanto una politica della percezione del reale valore, che nasce in
base alla propria corporeità, alla propria stretta relazione con le
persone, le piante, gli animali, la terra, l’aria, ecc., conduce anche
ad una vera attenzione per ogni cosa. Questa cultura viene sostenuta,
nel grande come nel piccolo, dai valori della cura materna, così come
viene magnificamente espresso all’articolo 1, comma 1 del progetto di
Convenzione Onu: «Il bene comune più alto e universale, la condizione di
esistenza per tutti gli altri beni, è la Terra stessa. Perché essa è la
nostra Grande Madre, che deve essere amata, rispettata, curata e
onorata, così come la nostra stessa madre».
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