CENTRI ANTIVIOLENZA IN PUGLIA
lunedì 8 ottobre 2012
Per continuare la nostra storia
di Daniela Rollo
Immagino Paestum di “Primum Vivere”come un luogo di passione, per la politica, per la relazione, per continuare la nostra vita e la nostra storia, nel mondo.
Alla fine degli anni ’90, avevo trent’anni, quando Luce Irigaray, mi scrisse, una dedica su un suo libro: “a Daniela, per ricordare e continuare il nostro incontro a Lecce e….la sua vita”. Il confronto con le donne, il pensiero e le pratiche della differenza mi hanno dato un punto di avvistamento per comprendere la realtà, le contraddizioni e ambiguità del cambiamento, le violenze sul corpo e sulle menti delle donne, le conflittualità della convivenza sociale, aggravate dalla crisi socioeconomica, a partire dal portato del femminismo, il suo essere eventualità di trasformazione radicale, forza critica e spazio immaginativo e relazionale, in grado di realizzare pratiche politiche alternative.
Oggi, le trasformazioni economiche, del mondo del lavoro rischiano di rendere le donne la migliore incarnazione dell’ideologia del “lavoro totale”; sottraggono significato e realtà all’esperienza, deviano sentieri di consapevolezza e soggettivazione delle donne, offrono spazi di “conformità rovesciata”, messa a valore della differenza femminile, assorbimento del suo potenziale trasformativo. Nella politica istituzionale le capacità delle donne vengono spesso messe al servizio del potere e delle sue declinazioni, le capacità vengono riassorbite in una logica che legittima lo status quo. Nei processi in corso nella scuola, nel mondo della formazione di cui faccio parte come docente, l’estensione del paradigma produttivo porta alla standardizzazione delle conoscenze e delle competenze, alla loro trasformazione in fattore alienabile, separabile dai suoi produttori, e dalle sue produttrici.
“Si tratta dell’operazione metaforica di appropriazione maschile del femminile”, “il grande trucco della nostra civiltà”, “insieme ai significati delle parole si spostano anche i nomi, le case, i campi, gli armenti, il potere, i privilegi” (Luisa Muraro – Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna). Il significato, l’interpretazione che ricevono le cose e le persone è parte costitutiva di quello che avviene. Cura, femminismo, beni comuni, ad esempio, hanno assunto significati di comodo, utili alla mercificazione, “che non restituiscono l’esperienza, ma la sostituiscono” (Luisa Muraro), sono utilizzati in modo da svuotarli, indebolirli, distorcerne il senso in modo da assimilare l’alterità, e porla al servizio di imperativi produttivistici o di un discorso politico ingannevole. Il femminile addomesticato ad arte, rende le donne risorsa da utilizzare, salvatrici nel momento di crisi. La definizione sociale delle identità femminili spostata sul terreno del lavoro piuttosto che su quello della cura, ha reso problematico per le donne il rapporto con le altre sfere della vita e con la sfera degli affetti, della maternità, della cura.
Nello speciale di Leggendaria su “La cura del vivere” Bianca Pomeranzi parla di questa espropriazione del sapere femminile, e di “attacco alla riproduzione della vita in tutte le sue forme, dalla procreazione alla scomparsa della biodiversità” e del “grande nuovo mercato della cura” di “addomesticare la potenza dell’esperienza delle donne di esorcizzare il loro ruolo (…) indicandole come vittime e non piuttosto soggetti di trasformazione politica”.
Uno dei cardini di questa operazione è la dicotomia di genere che divide e contrappone i ruoli del maschile e del femminile, e crea nuove subalternità, quando definisce il mondo come somma dei privati: la possibilità di autenticità e volontarietà delle scelte di singole donne continua ad essere condizionata da stereotipi, costruzioni sociali dualistiche e astratte, che riprongono uno “specifico femminile” essenzialista, deciso a priori come coerente e naturale per tutte, interiorizzato e utilizzato dalle donne stesse come strumento di affermazione sociale. L’individualismo moderno con la proliferazione illimitata di desideri che non si misurano sulla cura dell’altro, ha attribuito valore di segno positivo all’indipendenza economica; le definizioni stesse di indipendenza/dipendenza, create al fine di mettere in moto dinamiche emancipative, sono state basate su costruzioni gerarchiche fondate sul disprezzo della fragilità, della vulnerabilità, sulla svalutazione della sfera riproduttiva, sull’opacità del privato, sull’invisibilità del lavoro domestico e di cura, a favore del lavoro salariato, “visibile” svolto all’interno della sfera produttiva. L’impegno legato alla riproduzione e alla cura continua ad essere delegato alle donne e, contemporaneamente, l’essere donna viene rappresentato come una sorta di handicap che influisce nella selezione e nell’avanzamento di carriera. Divenire più realiste del re, uniformarsi al modello maschile egoista, aggressivo, arrogante, in un quadro di competizione, è stata una porta varcata dalle donne già aperta, che comportava il tralasciare un’idea di cura troppo ingombrante, troppo definita: “la cura non piaceva alle ragazze, non dava identità. C’era la paura/il rifiuto di trovarsi di fronte a un’idea di cura “come destino”. Il desiderio era di spostarsi, scartare dalle opre femminili”, scrivono le donne de “Il gruppo del mercoledì” che ha prodotto “Leggendaria”. Il senso della cura collegata all’oblatività e a una femminilità di servizio che l’ha resa gabbia esistenziale e destino legato simbolicamente alla passività, ha rappresentato una perdita simbolica importante,“che è come giudicare malata e buttare via l’ostrica che contiene la perla” ( Luisa Muraro)
Oggi, si parla, di “emancipazione malata”, per definire un tarlo, all’interno di un processo di autonomia illusoria, che appare segnare passi in avanti, ma che di fatto “appende l’essere donna al progetto astratto e negativo della sua eliminazione” (Luisa Muraro), punta a rendere le donne sul lavoro quello che per la società industriale erano le nuove fonti energetiche, strumento da potenziare (con l’empowerment) perché renda, favorisca una maggiore produttività; insomma una variabile di produzione da utilizzare.
L’emancipazione, trampolino essenziale alla presa in carico di sé stesse, delle proprie azioni e pensieri, rischia di divenire omologazione all’economia esistente e al suo discorso culturale alle sue regole che non tengono conto della vita. La forma rivendicatoria di avere ‘uguale’ valore sul mercato del ‘maschile’, come se il maschile fosse anche per le donne l’unico valore possibile, ha trasformato la differenza in disuguaglianza, creato i cosiddetti “tetti di cristallo” delle lobby maschili e nuove forme di oppressione e segregazione occupazionale.
Insomma, “c’è molta ingiustizia che si fa nel nome della giustizia” come sostiene Luisa Muraro.
Di fronte alla crisi, poi, e per stare alla flessibilità si propongono qualità per tradizione riconosciute come femminili, perché risultino un modello sia per le donne che per gli uomini. (C. Marazzi – Il posto dei calzini). La separazione pubblico/privato, tempi di vita e tempi di lavoro non vengono messi in discussione dalle politiche di conciliazione che considerano la cura, la riproduzione come “problema delle donne”. La rappresentazione della “donna funambola” efficiente sul lavoro e perfetta dentro casa, in grado di armonizzare e conciliare tutto non contribuisce ad uno scardinamento della costruzione capitalistica e patriarcale del tempo, del lavoro e del fatto che la riproduzione e la cura non siano solo una “questione femminile”.
L’indebolimento della divisione tradizionale fra lavoro produttivo e riproduttivo tende al trasferimento dal privato al pubblico, dell’immagine adattiva, sacrificale e oblativa della donna che la tradizione al maschile storicamente ha costruito. Il capitalismo cognitivo include e mette a profitto le qualità femminili, che non erano riconosciute come produttive, “fa leva sulla gratuità, che da sempre ha connotato il discorso domestico delle donne, sul concetto di cura e spinge a convogliare il desiderio sul lavoro”(Cristina Morini). La bioeconomia confisca il tempo di vita, la dimensione affettiva: l’elasticità di entrare in contatto con contesti diversi, l’attitudine alla cura divengono beni immateriali sottomessi alla logica del valore di scambio.
Portare tutto al mercato si tramuta in espropriazione di energie, il concetto ambiguo di femminilizzazione, fondato su un femminile metaforico somma dei privati, mette sotto scacco le stesse dinamiche emancipative che l’hanno favorita: dal significare partecipazione più massiccia delle donne al lavoro è stata trasformata in messa al lavoro della vita, messa in produzione dell’attitudine alla relazione, esternalizzazione del lavoro di cura.
Non è, dunque, l’inclusione di una grande quantità di donne nel mercato del lavoro o nella politica istituzionale che porta ad una modificazione della realtà. La quantità non determina tout court una modificazione della qualità. Perché la strategia basata sull’inclusione/esclusione non fa che accogliere e rinforzare la realtà già data. Carla Lonzi parlava di “pseudo-femminile come struttura a lui complementare(…) che raggiunge il massimo delle sue potenzialità migliorando la realtà maschile in ogni campo senza mai scattare all’affermazione di sé”.
La “parità”, l’uguaglianza”, la politica dei diritti, “l’emancipazione” pensate al maschile nei termini di mancanza e complementarietà lasciano inalterate le contraddizioni. “L’interpretazione della condizione umana femminile in termini di giustizia negata, insieme alla sopravvalutazione delle risposte offerte dal diritto, opera una generalizzazione che, volendo portare soccorso, rimpicciolisce ciò che molte, moltissime donne mettono in gioco nei loro rapporti con il mondo e con l’altro sesso. ( Luisa Muraro – Non è da tutti – L’indicibile fortuna di nascere donna)
Si tratta, allora, di mutare lo sguardo e “metter in luce la parte in ombra, il rimosso di ogni formulazione maschile “ (C. Lonzi – E’ già politica) quello scarto esistente nel “sapere contingente”, sempre collocato in situazione, non originario o immutabile, ma prodotto all’interno di un contesto che cambia e differisce.
Il femminismo non è un’idea, è una pratica. Portare al mercato la differenza femminile non significa renderla merce, ma alzarne il valore. Il cambiamento passa da una porta stretta, quella del lavoro di modifica dei riferimenti simbolici, capaci di forzare oltre i confini di senso e dell’esperienza nei luoghi comuni e sociali.
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