mercoledì 10 ottobre 2012

Paestum: tra “rappresentanza” e mancato riconoscimento delle soggettività!


 DA FEMMINISMO A SUD

Paestum convocato dalle femministe “storiche”. Noi non c’eravamo per scelta e chi della nostra community voleva esserci non se lo potevamo permettere. Alcune delle donne che sono state con noi a Livorno, al II° FemBlogCamp, invece c’erano. Segnaliamo un report, ci sembra l’unico, in giro che racconti un punto di vista differente. Poi segnaliamo dei video/interviste a cura della Libreria delle Donne di Milano e se volete leggere altre note proseguite nel loro sito. In generale però viene registrata di quelle giornate, a parte l’alto numero di partecipanti, la discussione che interessa a quelle che ne parlano, ovvero quella della rappresentanza.
L’articolo della Dominjianni sul Manifesto racconta un po’ di tutto. Ci è stato sottoposto nella nostra mailing list e questa è l’opinione di una compagna del nostro Collettivo che condividiamo anche qui.
Da Feminoska:
io non sono stata a Paestum e perciò non posso parlare più di tanto dell’evento in sè, se non condividere qualche impressione di quello che ho letto/sentito a riguardo.
1 – Noto con dispiacere che anche una testata come il manifesto ha deciso di dare visibilità ad un evento femminista che potrei definire ‘istituzionale’ a scapito di eventi cresciuti ‘dal basso’ come il fem blog camp.

Ricordo, per chi lo avesse dimenticato, che solo 10 giorni fa centinaia di femministe e antisessisti erano presenti a livorno costruendo con le proprie forze, saperi, passioni un camp fatto di condivisione e partecipazione, che mi pare rappresenti assai meglio di Paestum – almeno per quanto mi è dato sapere di un luogo che, se non ho malinterpretato, mi è parso governato da catering e dibattiti frontali in stile professore-allievo – ‘l’assunto che, per avere un senso, la politica deve muovere ed essere mossa dalla vita [...], e che dunque l’unica mossa che vale contro la governamentalità biopolitica di oggi è quella di una soggettività esposta in prima persona, di una pratica non alienata in regole e procedure, di una parola aderente non all’ideologia ma all’esperienza, di un’azione non differita nel programma o nell’utopia ma sperimentata nel qui e ora.
(tra il dire e il fare c’è di mezzo….)
Peraltro quei pochi articoli che ho potuto leggere nelle settimane passate sul fem blog camp, erano soprattutto interessati alla presenza della zanardo o della ‘mosca bianca’ lorenzo (oooohhhh, l’uomo antisessista, notizia!!!:-D) e spesso facevano riferimento a FaS (che, scusate la finezza, son due anni che si fa un ‘tombino’ così per realizzarlo) solo marginalmente e in maniera quasi casuale, quando non ignorandoci completamente.
Questo non per manie di protagonismo – personalmente non me ne può fregare di meno – però a titolo di ‘osservatrice’ posso affermare che trattasi di scelte politiche operate dalle testate giornalistiche volte a legittimare solo alcune modalità di fare politica, quelle che in qualche modo non vanno a scardinare veramente le fondamenta del potere (noi, al contrario di loro, si è parlato tanto di sessualità, di genere, di antispecismo, di precarietà…di tutte quelle catene reali e quelle oppressioni che sperimentiamo quotidianamente e che ci rubano vita, e contro le quali lottiamo con tutte le nostre forze).
2 – L’incipit dell’articolo parla di ‘desiderio di politica‘: ma quale politica mi chiedo io? perchè se non si parla di sessualità e poteri, di precarietà, ecc.ecc. dove caspita è andata a finire la preziosissima intuizione del fatto che il personale è politico?
La politica di cui si parla a Paestum è ‘la questione della rappresentanza‘…. cioè, davvero siamo ancora qui? E’ questo l’immaginario politico in grado di scardinare gli ingranaggi del potere che dilaniano i nostri corpi e le nostre vite? Ma forse nemmeno mia nonna ragionava così!
E inoltre ‘Non è però tanto la rappresentanza quanto il lavoro a prendersi prepotentemente la scena, e ben più della sessualità di cui invece si parla poco o niente. Ma qui il lavoro non è solo quello che c’è e quello che non c’è, quello garantito e quello precario, quello fisso e quello intermittente: è prima di tutto investimento di energia e di desiderio, progetto di sé e relazione con altre e altri, realizzazione o delusione, racconto d’esperienza, spesso ferito dalla mancanza di restituzione.
Questa è la concenzione di lavoro? Beh, per me il lavoro è schiavitù, il precariato è avvilente ma è la nostra realtà, e non ci si può non confrontarsi con essa. Come si può dire che il lavoro sia ‘progetto di sè spesso ferito dalla mancanza di restituzione‘?
Vallo a dire a una badante, ad una sex worker, ma anche a me!!!!
Il lavoro nel mio quotidiano è compravendita di prestazioni in cambio di denaro,  tramite quella compravendita il mio datore di lavoro si prende il diritto di maltrattarmi, abusare di me a parole e con mille subdole azioni, e di sicuro non è il mio progetto, o quello che meglio mi rappresenta!
Da un pò di tempo a questa parte ho messo davvero in discussione questo aspetto della mia vita e mi sono resa conto che, anche quando mi capita di realizzare lavori che in qualche modo mi gratificano (e dedicandomi a diverse attività fortunatamente capita anche questo), si tratta sempre e comunque di lavoro, ci sono sempre dei limiti e dei paletti (di tempi, di modi, di opportunità) che non corrispondono alla piena espressione di sè.
Mi sono accorta col tempo che tutte le migliori espressioni di me passavano e passano attraverso la gratuità  – che vivo comunque con responsabilità, ma che mi assicura la piena libertà d’azione. Il lavoro nella mia vita si è perciò pian piano svuotato di tutti i costrutti simbolici di autorealizzazione che gli vengono associati (per renderlo più accettabile) e si è mostrato per ciò che è: transazione con me come merce. (e nb: il reddito di sussistenza di cui si parla nell’articolo declinandolo al femminile dovrebbe essere rivendicato da tutt*, uomini e donne, perchè siamo tutt* parte lesa nei giochi di potere che vengono operati sulla nostra pelle quotidianamente dal ‘mercato del lavoro‘ – non è un caso che si chiami mercato).
3 – ‘C’è di mezzo il «riconoscimento di soggettività» che le giovani a ragione rivendicano. Ma che non è affatto in contraddizione con il riconoscimento di genealogia che fa la storia e la forza del femminismo.
Ecco, io qui alla Dominijanni tirerei un ceffone (cultural/metaforico). Perchè le giovani non dimenticano la genealogia (difatti noi ad esempio, che manco siamo tra le più giovani, di Paestum abbiamo parlato, loro guardacaso di noi no), ma la genealogia non deve diventare un atteggiamento di supponenza, un fardello che le più giovani debbano buttarsi acriticamente sulle spalle. Cosa temono, mi chiedo, l’oblio? Beh, parliamone, ma a parte che aggrapparsi alla storia del femminismo per legittimarsi fa tanto ‘politico aggrappato alla poltrona’, sono queste persone le prime a non volersi mettere in discussione, le prime a ignorare le nuove istanze, le prime a derubricare qualsiasi altra proposta come inconsistente o inopportuna, le prime a voler a tutti i costi dettare l’agenda a quelle ‘vite che anelano farsi politica‘ (questa è mia! ) Lo abbiamo visto in opera nelle chiamate SNOQ, mi pare di scorgerlo anche a Paestum nel modo in cui le questioni vengono scelte, poste e discusse.
Hanno paura di essere superate (cosa che invece, se fossero lungimiranti, dovrebbero accogliere con gioia), non ci pensano nemmeno a mettersi in discussione. Mi pare che davvero non riescano a fare molto altro se non guardarsi allo specchio.
Brave, siete ‘storia’. Ma se non aprite davvero occhi, orecchie e cervello, diventate fossili. Se non vi fate da parte quando è giusto farlo, se non aiutate le femministe più giovani, piene di idee ma prive di visibilità a prendere parola siete peggio: siete fossili che sistematicamente ci tolgono la parola, fossili che mettono i bastoni fra le ruote al cambiamento. Fossili decadenti di un paese in decadenza.
Loro non sono il femminismo, sono parte del femminismo. E questo fa una differenza enorme.

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